Una mamma racconta la morte del figlio
Ho conosciuto Stefano quand’ero alle scuole superiori.
Mi aveva colpito subito: aveva quell’energia e quel sorriso che ti mettono istantaneamente a tuo agio.
E che ti fanno venire voglia di passarci tempo assieme! Infatti da quel momento abbiamo condiviso un sacco di momenti indimenticabili tra amici, ridendo, ballando, bevendo, facendo notte fonda… Le classiche cose che si fanno da ragazzi, e che fanno tanto arrabbiare i genitori 😅
Era una delle persone più cariche di vita che conoscessi. Ecco perché quando mi arrivò la notizia della sua malattia, e successivamente della sua scomparsa, sinceramente facevo fatica a crederci.
La sua energia si è sentita persino al suo funerale. E di solito io odio i funerali.
Quello di Steno, come lo chiamavamo noi amici, lo porto nel cuore. Ricordo in particolare “Three little birds”, la sua canzone preferita, cantata a squarciagola con le lacrime agli occhi da tutti noi, e accompagnata dal suono dei tamburi, che ti entra nelle vene. Ho la pelle d’oca solo a scriverlo.
Per fortuna, l’addio a Steno è stato lento, e dolce: per anni noi amici abbiamo continuato a trovarci a casa dei suoi genitori per ricordarlo durante cene tutti assieme (vedi foto sotto).
La dignità e la forza con cui i genitori di Stefano, Maria e Leopoldo, hanno reagito alla sua partenza mi ha sempre affascinata.
E ora che sono mamma anch’io, ho deciso di chiedere loro di condividere il loro “segreto”.
Partiamo con la testimonianza di mamma Maria 💛
Anni fa è successo qualcosa che ti ha sicuramente sconvolto la vita. Riusciresti a raccontarlo?
Quando si parla di malattie gravi, molto difficilmente curabili, si pensa sempre che questo debba riguardare gli altri.
Si temono, se ne ha anche paura, ma di solito si pensa di esserne immuni, soprattutto si crede che ne siano immuni i figli. Perché comunque sono giovani, e hanno la capacità fisica di affrontare le difficoltà: la vitalità della giovinezza riesce a far superare tutto, no?
Il 31 gennaio del 2010 è mancato Stefano, il nostro secondogenito, a causa della leucemia.
La malattia era apparsa tre anni prima, pareva debellata, ma poi mentre era in Bolivia a svolgere un’azione di volontariato, è ricomparsa.
È rientrato in Italia non direi in fin di vita, ma quasi.
Quindi è stato ricoverato di nuovo. A quel punto le cure fatte in precedenza non avevano più effetto, e le nuove cure non hanno agito. Le cellule malate si creavano direttamente nel midollo, per cui anche un trapianto sarebbe stato inutile.
È stato un periodo difficile.
All’inizio pieno di speranza perché le reazioni alle cure erano ottime. La malattia era stata presa inizialmente come un’esperienza pesante e difficile, ma che poteva essere superata ed essere considerata come un aiuto a capire di più le cose importanti della vita.
Nella seconda fase della malattia, quando si è ripresentata in tutta la sua drammaticità, è stato un po’ alla volta evidente che la medicina era incapace di curarla, e quindi che tutto era inutile dal punto di vista medico.
Cosa ti ha aiutato ad affrontare il dramma?
Innanzitutto la fede, e la speranza alimentata dalla fede, che ha fino all’ultimo dato fiducia nella possibile guarigione, anche se la situazione era difficilissima; questa forza, questo porre la propria fiducia nelle mani di Dio, mi ha aiutato.
Come mi ha tanto aiutato anche la vicinanza di tanti, medici e familiari ma anche persone a livello internazionale, essendo noi inseriti in un’associazione di solidarietà internazionale (Incontro fra i popoli, ndr).
Sentire che con modalità diverse, in lingue diverse, con credi diversi, comunque c’erano tanti che pregavano per il nostro Stefano, mi dava consolazione.
Cosa non ti ha aiutato?
Non saprei dire cosa non mi ha aiutata.
Perché di fatto abbiamo ricevuto molto, e non saprei veramente dire se ci fosse stato qualcosa che ha ostacolato, che ci ha appesantito, che ci ha rattristati in questo percorso di sofferenza.
Durante questo percorso di sofferenza c’era in contemporanea nostra figlia che aspettava un bambino, e che Stefano diceva che non avrebbe visto.
Si sentiva probabilmente questo nel suo corpo, questa difficoltà di recuperare forze, energie, questo lento inesorabile spegnersi, cosa che non si voleva neanche vedere.
Era consapevole che la malattia gli avrebbe impedito di vedere il suo nipotino; infatti è mancato un mese e mezzo prima che nascesse.
Se potessi tornare indietro nel tempo, prima dell’arrivo della malattia, ci sarebbero delle cose che rifaresti diversamente come mamma?
Avrei forse cercato di creare opportunità di dialogo più adeguato all’età di Stefano, nelle sue fasi precedenti.
È mancato che aveva 23 anni, quasi 24.
La fase dell’adolescenza non è stata facile, perché amava l’eccesso, lo sballo – non so di preciso, però so che fumava marijuana. Non so se avesse altre cose.
E questo per me era molto, molto difficile da accettare.
Ecco, tornando indietro magari nonostante queste cose che rifiutavo, cercherei di trovare modo di creare comunque dei ponti, un dialogo, maggiore fiducia in lui; per me non era certo facile.
Qual è il ricordo che più ti scalda il cuore quando pensi a Stefano?
Quello che più amavo di Stefano era il suo amore per la natura: aveva una vita abbastanza orientata al camminare in montagna, al mare, cose che anche io personalmente amo.
Questo suo cercare nella natura un dialogo profondo con se stesso, e con tutto quello che è l’unità del creato, è la cosa più bella che ricordo di lui.
Mi vengono in mente quelle volte in cui andavamo in Brenta e stavamo là, a contemplare lo scorrere dell’acqua. Aveva questa vita avventurosa, sempre immerso nella natura.
Soprattutto negli ultimi anni, dopo l’inizio della malattia, mi pare che questo cercare di andare a camminare, di stare a contatto con la montagna, si fosse ancor più accentuato, anche se aveva pochi amici disposti a queste scelte.
Su questo aspetto sento che c’era molta sintonia con lui: ricordo che ci consigliava dei concerti in mezzo ai monti, e noi ci andavamo sempre volentieri.
Questo sentirsi affini nell’amare, nell’apprezzare un mondo che è quello della natura, ma anche della musica, dell’arte e della bellezza uniti insieme, è probabilmente l’aspetto che più ci ha tenuti vicini.
Come ti ha cambiata questo dramma?
Sicuramente nel dare un peso relativo a tante situazioni, a tanti eventi, a tanti aspetti della vita che magari prima si prendevano maggiormente in considerazione.
Quindi si è visto che tante cose diventano non dico inutili, ma scarsamente valoriali rispetto alle cose importanti, che sono la salute, la vita, gli affetti.
Certe situazioni che si sono create, magari anche nelle relazioni, hanno preso un valore un po’ meno importante rispetto a prima.
C’è stato un po’ di distacco da tante situazioni, soprattutto nei primi anni, in cui c’era ancora questo peso di un’assenza che ci portava un po’ fuori da un pensare che dà molta importanza alle cose pratiche, a tante sciocchezze.
Cosa consiglieresti ai genitori che si trovano ad affrontare la scomparsa del proprio figlio?
Direi di parlarne.
Non avere paura di comunicare con gli altri il proprio dramma, perché tutti nella vita dobbiamo confrontarci con una perdita di affetti, che potrebbe sconvolgerci e metterci in uno stato d’animo di depressione, che ci fa dire “La vita per me è finita. Che senso ha continuare a stare qui?”.
Invece il fatto di parlarne, di sentire che altri hanno sofferto, e che comunque ti sono vicini, ti ascoltano, ti capiscono, ti aiuta a trovare la forza nella relazione vera.
Questa esperienza della condivisione della sofferenza l’abbiamo imparata in Africa, dove la morte era molto presente, faceva parte della quotidianità.
Le persone stavano insieme, si incontravano quando c’era il momento in cui si salutavano i loro cari: tre giorni di incontro, di sostegno, di riunione di famiglia, in cui si stava là, in compagnia.
E quindi consiglierei anche qui da noi questa semplicità nel condividere le cose importanti, come la scomparsa di una persona cara, che non deve essere un tabù, non deve essere la fine, bensì l’inizio, il cambiamento.
Nella concretezza la morte di un proprio caro provoca dolori così grandi, che a volte non si è in grado di sopportare, nonostante la consapevolezza data da un’eventuale fede.
Quindi consiglierei proprio di non chiudersi, di parlarne, sapendo che tutti prima o poi dobbiamo vivere questa esperienza.
E il fatto di condividere ci rende simili, ci unifica nella nostra umanità, ci sostiene anche, e ci fa capire che da soli è difficile portare certi pesi; condividendoli è più facile, il dolore sembra meno forte.
Non si va a parlarne ai quattro venti, però con le persone vicine aprire il proprio cuore, non aver paura di piangere, di dire le cose come sono.
Quando si parla il linguaggio dell’umanità profonda, si arriva alle coscienze. Quindi anche chi riceve entra in una relazione profonda con la persona che soffre.
Questo aiuta tutti: chi soffre, e anche chi in quel momento non soffre, perché entra una dimensione con la quale prima o poi si dovrà confrontare.
Che messaggio daresti invece ai genitori in generale?
Direi di dedicare tempo ai propri figli, mettendo in secondo piano gli impegni, soprattutto nei primi anni di vita, perché si recupera questo tempo nella fase dell’adolescenza.
Se si crea una legame, un dialogo, una fiducia, ecco che anche nella fase di adolescenza, in cui cercano la loro strada, la loro vita, e mettono in crisi quanto dato da noi genitori su tutti i livelli -educazione, modo di vivere, tutto-, si recupera del dialogo nella relazione profonda, e ci si può intendere.
Quindi direi di mettere veramente in secondo piano lavoro, divertimenti, amicizie esterne, e dedicarsi molto ai propri figli in tenera età.
Questo dà loro la sicurezza affettiva, la forza dell’amore, che permetterà loro di affrontare poi con maggiore sicurezza le situazioni della vita, difficili o addirittura ostili, senza diventare in qualche modo succubi degli altri, o dei condizionamenti.
Quando si mettono al mondo i figli, bisogna prendere la decisione consapevole di dedicarsi a loro. Nei primi anni sicuramente, dopo gradatamente vanno verso un’autonomia.
Questo è per me fondamentale.
💛
Ti ringrazio dal profondo del cuore, Maria, per queste parole che accarezzano l’anima.
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