Trasforma la diagnosi della sua malattia in un’opera teatrale: la storia di Nicola
Ho avuto il piacere di intervistare Nicola, con cui ho condiviso gli anni delle scuole medie e superiori.
Ripercorrere il filo della sua storia, dalla sua passione per la recitazione, ai suoi viaggi, alle sue prime soddisfazioni professionali, alla diagnosi della sua malattia, mi ha fatto ridere e piangere, e sono sicura anche tu troverai la sua storia fonte di ispirazione.
Come riassumeresti la tua vita finora?
Da ragazzino, mi piaceva molto leggere e amavo l’arte in generale, e questo mi ha poi portato a fare il Liceo classico, e a seguire questa vocazione teatrale che ho iniziato a sperimentare alle medie.
Poi alle superiori ho fatto un corso di teatro, e da lì in poi ho deciso di dire: “Mah, perché no? Facciamolo diventare la mia vita!”.
Ho iniziato a studiare, a fare l’accademia di Teatro. Nel frattempo andavo all’Università alla facoltà di Lettere, e una volta laureato, ho deciso di girare un po’ per il mondo per diventare migliore, sia come attore, che come artista, che come persona.
Poi sono tornato in Veneto un po’ più grandicello. Avevo già la mia compagnia teatrale (“Amor Vacui“, di cui Nicola è stato tra i fondatori, ndr), e avevo già avuto le mie prime soddisfazioni a livello professionale. Da qui stiamo ora svolgendo vari progetti.
Nel frattempo ho conseguito la laurea specialistica in Filologia Moderna, e ho iniziato anche ad insegnare Italiano, Storia e Geografia (alle scuole medie, ndr), come supplente per adesso (con molto successo, dato che facendo un po’ di stalking nel suo profilo FB, ho trovato dei dolcissimi messaggi da parte dei suoi studenti, come “È il nostro Superprof, ci dispiace non averla tutto l’anno”, ndr).
Cosa ti ha portato a perseguire la strada della recitazione e del teatro?
È una forte passione.
Credo che se non sei convinto al 100%, non intraprendi una strada cosi difficile.
Non è per nulla rosa e fiori, ti dà pochissime soddisfazioni a livello economico, a meno che tu non reciti in fiction o film in maniera continuativa.
Devi essere organizzato, metodico, però queste cose le capisci dopo.
Intanto devi essere convinto al 100% che lo vuoi fare.
Alle superiori mi ero talmente innamorato perso della recitazione, che non c’era niente che potesse smuovermi. Sono sempre stato abbastanza testardo (da buon Ariete, detto da un’altra arietina, ndr 😝 ).
Coltivare il sogno di fare l’attore in un piccolo paese di provincia non dev’essere stato semplice. Come hai superato gli ostacoli che hai trovato sul tuo percorso?
Non è stato semplice perché qui in Veneto c’e una cultura strana, è molto amatoriale.
Gente che va a teatro c’è sempre, però mancano politiche che favoriscano la crescita di questo settore.
Tantissimi artisti hanno più possibilità se si trasferiscono in grandi città come Milano, Roma, oppure all’estero. Così ho fatto anch’io: sono andato a Roma, e poi a studiare un po’ in giro per l’Italia.
Finché ho capito che in realtà il Veneto è molto fertile. Se vuoi creare qualcosa, seminare, si può, e trovi dei bei riscontri.
Certo ci sono difficoltà; quello che fai, soprattutto se è una novità, non viene compreso e accolto subito. Bisogna coltivare tanto.
Però se prendiamo la storia del teatro in Italia negli ultimi 35 anni, le maggiori compagnie, come la Socìetas Raffaello Sanzio, i Motus, i Babilonia Teatri, sono nate da piccoli paesini di provincia. Tantissime realtà sono partite da zone rurali e poi da lì con la buona volontà sono riuscite ad emergere.
Ho superato le varie difficoltà conoscendo persone, girando tanto, non abbattendomi mai, e avendo fiducia in me stesso.
La tua vita è stata recentemente segnata dalla diagnosi di una malattia neurologica. Come hai reagito alla notizia?
Sono rimasto paralizzato da bambino, quando avevo 10 anni circa, in metà parte del corpo. Dicono che fosse una prima avvisaglia della sclerosi multipla, ma al tempo non si sapeva che colpisse anche i bambini e quindi hanno considerato l’incidente come un ictus.
Mi sono ripreso, ho suonato la batteria, ho fatto tanto sport (tra cui la pallacanestro, ndr).
Poi qualche anno fa ho avuto una crisi, e quindi sono andato in ospedale.
Però non ricordo di averla vissuta particolarmente male. Ero troppo confuso forse.
La notizia è stata tosta, soprattutto per i miei genitori e chi mi è vicino, la mia fidanzata.
In realtà ho sempre cercato di tirarli su di morale, non mi creo troppi problemi sulla mia condizione.
Anzi, credo che questa malattia per me sia stata quasi una strana opportunità.
Mi ha fatto vedere la vita in maniera totalmente diversa. Mi ha fatto capire la relatività del tempo. Sono cose che si dicono sempre, però è difficile capirle veramente.
Ad esempio, quanto sia importante il tempo di una giornata vissuto a fare le cose piuttosto che rimandarle, è sempre stata una cosa che io prendevo un po’ sottogamba, e invece ora prendo seriamente.
Poi ci sono tutti gli aspetti collaterali, tipo il fatto che vivrò circa 10 anni di meno perché questa è l’aspettativa di vita per i malati di sclerosi multipla, e che probabilmente passerò gli ultimi anni quasi paralizzato -anche se chi mi è qui vicino non vuole sentire questi argomenti- (sorride, ndr), oppure no!
L’importante per me adesso è vivermi la vita al meglio.
E la malattia mi ha aperto gli occhi su tante cose, così come me li hanno aperti le ricadute: quando smetti di capire qualsiasi cosa, sei psicologicamente debilitato, non sai se recuperai, quando senti che tornano dei sintomi e vai subito in paranoia perché hai paura che ritornino ancora più forti.
È una malattia piuttosto aggressiva, e cerco di conviverci.
Un’altra cosa che la malattia mi ha fatto capire è che non ho più paura di morire.
Strano! Prima avevo una bella paura, invece adesso è come se fossi invecchiato di colpo (ride, ndr): mi sono messo l’animo in pace, vivo e non mi preoccupo più. So che avverrà qualcosa, oppure magari no, però non ho paura.
Ed è una sensazione molto curiosa. Credo la sperimentino tante persone che sono affette da malattie degenerative: penso sia la testa che si mette l’animo in pace, non saprei come altro dirlo (sorride, ndr).
Come hai affrontato i momenti difficili?
Ho superato i momenti più difficili grazie alla mia famiglia, i miei amici, la mia fidanzata, che mi sono stati vicini.
Abbiamo fatto delle feste quando tornavo dall’ospedale, anche se non potevo bere alcol (ride, ndr).
È stato bello, ti fa capire quanti ti vogliono bene, anche persone che hai perso di vista per qualche anno, perché vanno avanti per la loro strada (si sposano, hanno figli), e quindi è più difficile vedersi, sentirsi.
Questo mi ha fatto capire che comunque non sono solo.
Questa malattia è solo una delle tante difficoltà che la vita ti pone davanti, e che tutti quanti hanno.
Non mi ha fatto sentire speciale: semplicemente queste cose arrivano per tutti prima o poi, che sia una malattia di questo tipo o di un altro, che sia tu il malato o un parente, un amico.
L’importante è non diventare insensibili alle cose che accadono, ma neanche lasciarsi abbattere.
La tristezza, la depressione, è solo tempo perso. Farei un torto a me stesso, e alla vita.
In questi anni ho sempre creduto molto nei miei medici, negli ospedali, nella ricerca. Adesso stanno sperimentando molte terapie nuove, e sono fiducioso. Mi propongo sempre come sperimentatore di nuovi farmaci (ride, ndr), perché non ho niente da perdere.
Credo la medicina sia una delle cose più straordinarie che ha fatto l’essere umano. Già il fatto che io adesso possa camminare, possa fare le cose, lo devo tutto alla medicina, quindi è giusto che anche io ricambi in qualche modo.
Che messaggio daresti a tutti quelli che si trovano ad affrontare una notizia sconvolgente come può essere la diagnosi di una malattia?
Che sia un minuto o trent’anni, l’importante è lottare per la propria vita. Che duri al meglio, il più tempo possibile.
E poi comunque tutti quanti muoiono. Non so se sia un messaggio brutto, però quando vedi le cose da questa prospettiva, il fatto che siano 10 anni in più o 10 anni in meno, non cambia poi così tanto.
Cambia il come: come vivi le cose, le persone che hai vicino, i momenti belli. Queste sono le cose importanti. E appunto negarsi, per la depressione dopo una brutta notizia, i bei momenti che la vita può ancora regalarci, per me è un’inaccettabile perdita di tempo.
Finché sei vivo per me devi fare di tutto per essere felice, perché è vero che la vita ti pone tante difficoltà e può essere terribile a volte, ma è anche l’unica cosa che può darti la felicità.
Quindi il messaggio che darei è: cerca di non negarti la tua felicità.
Poi, succeda quel che deve succedere! Ma bisogna lottare per stare bene, per i momenti belli, per i propri compagni, fidanzati, per i genitori, figli. Bisogna cercare di lasciare un ottimo ricordo.
Non è importante la quantità di tempo, ma quello che si riesce a lasciare alle altre persone, e la gioia che si vive stando con gli altri.
Hai trasformato la diagnosi della malattia in un’opera teatrale: Black Holes.
“Black Holes” è nato da un termine tecnico che mi è stato dato alla diagnosi, “dei buchi neri nel cervello”.
Inoltre rispecchia bene l’ospedale, che diventa un centro di gravità da cui chi soffre di malattie degenerative non può più allontanarsi, e che risucchia totalmente anche chi ci lavora.
Black Holes è maturato durante un mio periodo di degenza nel reparto di malattie neurologiche.
Intervistando tutti i malati, i pazienti, i medici, gli infermieri, ho trovato una grandissima forza tra i malati.
Ho conosciuto un uomo che era un buttafuori in Italia, e poi fotografo in qualche isola spagnola.
È un uomo grossissimo, gigantesco, affetto da una malattia neurodegenerativa che gli toglie la mielina dai nervi del corpo.
Non ha sensibilità agli arti, e cammina solo perché si ricorda come si fa, ma non sente niente.
Eppure è una persona estremamente solare, che ama chiacchierare. Mi diceva sempre “Leggi, leggi! In questo periodo, visto che sono così, ho imparato a leggere. Mio fratello è uno scrittore, sai”.
Mi ha fatto piangere, perché non ho mai visto una forza così grande in una persona che cammina solo perché si ricorda come si fa, non perché senta il pavimento, o le cose al tatto.
E sorrideva, prendeva la vita in una maniera che mi ha lasciato il segno.
Mi ha fatto capire tante delle cose che ho capito.
Invece, chi si lascia prendere dallo sconforto rende “neri” anche quelli che stanno attorno: gli altri pazienti, i medici, gli infermieri, e di conseguenza anche gli amici che provano per lui pietà.
Non voglio suscitare pietà, né campare di “Oh, poverino”. Voglio essere trattato come tutti gli altri, così come tutti quelli che sono malati vogliono essere trattati come tutti gli altri.
Abbiamo qualcosa in più, qualcosa in meno nelle nostre abilità, ma è giusto che facciamo delle nostre abilità la nostra forza.
Da quando ho scoperto della malattia ho avuto un boom dal punto di vista artistico, perché ho finalmente iniziato a realizzare tante cose che prima erano solo “nebulose” della vita.
Ero molto confuso su certi temi, indeciso.
Invece ora no: succede una sventura, accidenti, prendi la vita in mano e cerchi di portarla dove vuoi, finché ce la fai. E quando non ce la fai più, pazienza! Hai fatto quello che dovevi fare e non hai niente da rimproverarti.
Ci dai un’anticipazione dei tuoi progetti futuri?
Insieme alla mia compagna Maria Chiara Pederzini e ad Alice Spisa ho da poco fondato la compagnia Belstoj.
Vorrei continuare a lavorare sulle malattie neurologiche, e come queste influenzino la vita e la percezione sensoriale delle persone.
Grazie, Nicola. Sono sicura che continuerai a lasciare il segno!