Gravidanza difficile: la storia di Silvia

Conosco Silvia dai tempi dell’università: abbiamo entrambe studiato Biologia Molecolare, e la nostra amicizia si è rafforzata nel bellissimo anno di Erasmus a Parigi.

Silvia col marito Sebastiano e me e Chiso.

Non ho potuto che saltare dalla gioia quando mi ha annunciato che era incinta del suo primo figlio.

Così come non ho potuto che sentire un tuffo al cuore quando la sua gravidanza ha cominciato a manifestarsi come estremamente difficile.

Il mio scoraggiamento però piano piano è stato rimpiazzato da un un enorme senso di stupore e ammirazione per la forza e tenacia che Silvia ha dimostrato lungo tutto il suo percorso.

Ho pensato che la sua storia potesse essere d’aiuto per tutte quelle persone che si trovano ad affrontare una gravidanza problematica, o in generale una scelta complicata.

Ecco quindi la sua storia!

Come e quando sei venuta a sapere che la tua gravidanza non era “normale”?

Era l’ottobre del 2018: ero alla prima gravidanza, e non avevo ancora compiuto 30 anni.

Facciamo gli esami di routine, il b test in particolare, che serve per vedere se c’è una bassa o alta probabilità di disturbi cromosomici nel feto.

Piccoli ciclisti si cresce.

Sono forte dei miei non ancora 30 anni e di non avere nessun fattore di rischio in famiglia, di essere una non fumatrice, sportiva, super sicura di me.

Ritiro gli esiti e già il ginecologo mi dice “C’è qualcosa che non va”.

I risultati davano un’alta probabilità di disordini cromosomici, di cui la più frequente era la sindrome di Down.

Decidiamo allora di andare ad indagare più in profondità questa cosa.

Mi prescrivono una villocentesi, in cui prelevano i villi coriali dalla placenta, e viene fuori che invece della sindrome di Down si tratta di trisomia del cromosoma 16.

È una condizione genetica rarissima paragonabile alla sindrome di Down, ma che di solito è incompatibile con la vita.

Questo era il referto della villocentesi, con annesso consiglio di abortire, perché eravamo ancora alle 12-13 settimane di gravidanza. Un aborto terapeutico sarebbe stato anche molto facile.

Con il mio ginecologo vogliamo però indagare più a fondo, e quindi oltre alla villocentesi va a prelevare alcune cellule del feto tramite l’amniocentesi.

Silvia e Mattia in una foto recente.

Con questa si scopre che la placenta era totalmente affetta, mentre le cellule del bambino sembravano normali.

Però un altro test ha evidenziato un ulteriore problema, forse meno grave ma ancora più raro: la disomia uniparentale del cromosoma 16. Il bambino aveva infatti ereditato entrambi i cromosomi 16 da me, e nella maggior parte delle sue cellule era stato eliminato il cromosoma paterno.

Si tratta di una condizione rarissima, molto poco documentata: ci sono solo 4-5 articoli scientifici a riguardo. Solo un laboratorio a San Francisco si occupa di studiare questi casi e quindi l’esito era assolutamente incerto.

Di nati vivi con questa condizione ce ne sono circa, di documentati, 250, con esiti variabili: pochi non hanno nessun tipo di problema, altri hanno qualche problemino più o meno grave, con necessità di interventi chirurgici più o meno frequenti.

Come hai reagito alla notizia?

Inutile dire che quando ho sentito la notizia mi è crollato il mondo addosso.

Quando ho sentito la notizia mi è crollato il mondo addosso.

Fattori di rischio non ce n’erano, ero ancora giovane, e ho sempre condotto una vita sana: mai avrei immaginato di poter avere un figlio con problemi.

Devo ammettere che mi sono fatta più di un pianto a casa, da sola, perché già ero a casa da lavoro in gravidanza a rischio, e stavo tutto il giorno a rimuginare su questa cosa.

Cosa ti ha aiutato di più ad affrontare la paura e l’insicurezza?

Mattia nel reparto di terapia intensiva.

In primis, lo stesso Mattia. Perché il vederlo nell’ecografia prima, e il sentire i suoi calci dopo, la sua determinazione, la sua voglia di vivere, non mi ha fatto avere nessun dubbio.

“Il vederlo nell’ecografia prima, e il sentire i suoi calci dopo, la sua determinazione, la sua voglia di vivere, non mi ha fatto avere nessun dubbio.”

Ero sicura che quel bambino voleva venir fuori, voleva vivere, voleva mettercela tutta, ed io non ero nessuno per decidere di mettere fine a questa cosa.

Nonostante non sia credente e non abbia pregiudizi sull’aborto, in quella situazione sentivo che quel bambino ce la stava mettendo tutta per venire al mondo, ed io non dovevo intromettermi e prendere decisioni al posto suo.

Come seconda cosa mi ha aiutato molto avere un background scientifico, saper comunicare in inglese ed essere determinata ad andare a fondo in questa questione.

Perché oltre a noi, ci sono solo due casi in Italia, alle cui cartelle i medici non potevano accedere.

“La soluzione più facile è l’aborto” mi hanno più volte ribadito. Aborto che mi hanno riproposto in più momenti, anche quando la gravidanza era abbastanza avanzata.

Quindi mi sono rimboccata le maniche e mi sono messa personalmente a contattare quei ricercatori a San Francisco, che almeno avevano uno spettro di 200 casi simili e potevano darmi una visione più ampia e realistica della malattia.

“Quindi mi sono rimboccata le maniche e mi sono messa personalmente a contattare quei ricercatori a San Francisco.”

Quali sono stati i momenti più difficili?

Mattia a qualche settimana di vita.

A parte il momento della notizia, devo dire che ci sono stati vari momenti critici durante tutta la gravidanza.

Sono infatti subentrate anche altre complicazioni totalmente indipendenti da questa sindrome, e altrettanto rare.

Durante la gravidanza sono stata ricoverata più volte in ospedale per i calcoli ai reni, una torsione ovarica che mi è stata operata dopo la gravidanza, e un falso positivo per il citomegalovirus.

Questi fatti un po’ mi hanno demoralizzata: già era una gravidanza difficile, sembrava quasi che l’universo stesse complottando contro di me per non farmi portare avanti questa gravidanza e proteggere questo bimbo che era già debolissimo di suo.

Però il momento più difficile è stato forse la decisione per il parto.

Avevamo optato per partorire in un ospedale più attrezzato di quello dove ero stata seguita fino a quel momento, così avremmo potuto fronteggiare meglio gli eventuali problemi di Mattia.

Mi ci hanno ricoverata dall’ottavo mese.

Avendo contattato i ricercatori e conoscendo le storie dei 200 bambini americani, sapevo che quasi la totalità erano nati con parto cesareo a 34 settimane.

La placenta trisomica verso quella settimana cedeva completamente, e non potendo fornire abbastanza nutrienti, il cervello del bambino avrebbe potuto subire danni permanenti.

C’erano stati anche casi di bambini morti in utero perché non fatti uscire in tempo.

Mattia alla nascita e dopo 3 mesi

Però i medici non sapevano praticamente niente di questa sindrome così rara.

Continuavo a ripetere che gli altri 200 casi erano nati a 34 settimane, e loro continuavano a ripetermi “Ma no, più il bimbo sta dentro meglio è”.

Quindi anche in quel momento è servita la determinazione.

Percependo di non essere seguita adeguatamente, ho deciso di autodimettermi dall’ospedale, firmando una carta in cui rinunciavo ad ogni cura. Ho contemporaneamente contattato il primario che mi seguiva precedentemente.

Ho quindi “licenziato” l’ospedale più competente ma che non dava minimo ascolto ai pazienti, e mi sono affidata totalmente ad un dottore di una struttura decisamente meno rinomata che però mi ascoltava, sapendo quanto mi ero informata sulla malattia, e aveva veramente a cuore il fatto che Mattia nascesse nel migliore dei modi.

Mi sono affidata totalmente ad un dottore di una struttura decisamente meno rinomata che però mi ascoltava, sapendo quanto mi ero informata sulla malattia, e aveva veramente a cuore il fatto che Mattia nascesse nel migliore dei modi.

Ha subito fatto le carte per farmi ricoverare nell’ospedale più vicino dotato di un minimo di terapia intensiva, e mi ha organizzato il parto per il giorno successivo.

Due giorni dopo ho partorito con parto cesareo d’urgenza a seguito di una pre-eclampsia, seguita da un’equipe di 15 tra medici e infermieri.

Nonostante fosse nato di un kilo e mezzo e con i polmoni ancora immaturi, e avesse bisogno di un respiratore, non appena è nato Mattia è riuscito in qualche modo, con un piccolo fremito, a fare un leggerissimo pianto. Appena l’ho sentito, ho capito che stava respirando ed era vivo, e sono scoppiata in un pianto di felicità che non riuscivo quasi più a smettere.

“Appena l’ho sentito, ho capito che stava respirando ed era vivo, e sono scoppiata in un pianto di felicità che non riuscivo quasi più a smettere.”

Se potessi dire qualcosa alla Silvia incinta di Mattia, cosa le diresti?

Le direi: “Continua così, vai avanti per la tua strada, non lasciarti influenzare da quello che dicono gli altri, anche se hanno più titoli e sono più potenti di te.

Continua per la tua strada e fai quello che ritieni giusto per te e per il tuo bambino, anche se questo vuol dire andare contro a tutto e tutti.”

“Continua per la tua strada e fai quello che ritieni giusto per te e per il tuo bambino, anche se questo vuol dire andare contro a tutto e tutti.”

Come sei uscita da questa esperienza?

Di sicuro rafforzata: ce l’abbiamo fatta!

Lo sento come uno dei più grandi successi della mia vita, il fatto di essere qui e di avere Mattia al mio fianco.

E mi vengono i brividi al pensare se avessi preso anche solo superficialmente una decisione diversa.

È stata comunque un’esperienza arricchente anche per me, non solo per quello che abbiamo passato noi, ma perché mi ha fatto entrare in un mondo di cui prima non conoscevo niente.

Mattia con il fratellino Aaron.

Siamo entrati in contatto con famiglie che hanno avuto la stessa diagnosi per i loro figli, gente fortissima che è andata avanti nonostante i loro bambini avessero problemi molto più grandi e gravi di Mattia.

E poi abbiamo conosciuto anche il mondo dei bimbi in terapia intensiva e delle loro famiglie. È un mondo surreale, perché è quasi completamente al buio e silenziosissimo: le luci sono soffuse, e le giornate sono scandite solo dai rumori degli allarmi dei saturimetri e degli elettrocardiogrammi.

Passi le giornate a sperare che non suoni un allarme, e quando suona, cosa che succede spesso, ti viene un tuffo al cuore e speri che non sia tuo figlio. E magari quando vedi che effettivamente non è tuo figlio, stai comunque male perché sai che è il figlio di qualcun altro… alla fine finisci per sentirti parte di un’unica grande famiglia con le altre mamme e gli altri bambini che sono lì con te.

Molti mi dicono che sono stata sfortunata per quello che ci è capitato. Io rispondo che al contrario è stato come vincere alla lotteria con Mattia!

Molti mi dicono che sono stata sfortunata per quello che ci è capitato. Io rispondo che al contrario è stato come vincere alla lotteria con Mattia!

Mi sento davvero fortunata per come ci è andata! I problemini fisici della nascita sono stati superati alla grande nei primi mesi e ora Mattia può vivere come un qualsiasi bambino di 3 anni: vivace, solare e scatenato 😅 .

Che messaggio daresti alle mamme che vivono un’esperienza simile?

Direi di pensare sempre con la propria testa, senza lasciarsi condizionare dagli altri.

Scegliere quello che davvero si vuole, non la cosa più impulsiva.

Scegliere quello che davvero si vuole, non la cosa più impulsiva.

E leggere, cercare di informarsi, e parlare con le persone che ci sono già passate.

A noi ha aiutato molto leggere le storie degli altri bambini di chi ha scelto di continuare con questa gravidanza.

A qualcuno è andata bene, ad altri meno bene, avendo patologie molto impattanti la qualità di vita. Ad altri, per fortuna in pochi, è andata male, in quanto hanno dovuto interrompere la gravidanza, o il bambino è morto in utero.

Però il fatto che comunque anche queste ultime persone scrivessero contenti e convinti di aver fatto la scelta migliore, e ti spronassero ad andare avanti, è stato davvero fonte di ispirazione per me.

Mattia che cerca di imitare la mamma!

Vedere i volti, le foto e i video di questi bambini mi è stato molto d’aiuto: mi immaginavo il mio, e sapevo che la scelta giusta era andare avanti.

Mi immaginavo il mio, e sapevo che la scelta giusta era andare avanti.

In questo sito ci sono le storie di questi bambini, compresi gli angioletti del gruppo, di cui un bambino che aveva molte patologie e purtroppo è morto a 5 anni.

Nonostante questo, nonostante tutto, i genitori scrivono che questi 5 anni sono stati degni di essere vissuti, e rivivrebbero ogni singolo minuto passato con il loro Bobby.

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