Come interagire al meglio con i preadolescenti (11-13 anni): 3 strategie infallibili

(Tempo di lettura: 5 minuti e 30 secondi)

In un articolo precedente avevo chiesto all’insegnante Giulia Lucietto di condividere le sue principali strategie per lavorare al meglio con i suoi piccoli allievi, bimbi dai 5 ai 10 anni.

In questo articolo parleremo invece di come interagire in modo efficace con i preadolescenti, ragazzi dagli 11 ai 13 anni.

La Prof.ssa Cattani durante una vacanza alle Cinque Terre

Anche in questo caso, mi sono detta che la persona più adatta a cui chiedere fosse un’insegnante che con questi ragazzi ci lavora ogni giorno.

Ho contattato quindi Chiara Cattani, professoressa alla scuola media da ormai 9 anni.

Il riscontro che Chiara ha dai suoi allievi è fantastico: basti vedere le lettere di ringraziamento che le hanno scritto o cosa le hanno preparato per il suo rientro dalla maternità!

Gli alunni sorprendono Chiara al suo rientro dalla maternità

Ma qual è il suo segreto?

Come tante persone che agiscono seguendo una passione, Chiara esordisce scusandosi se non riuscirà a spiegare bene le sue “strategie”, perché le attua senza pensarci troppo su: le vengono spontanee.

Spoiler: non è vero, le spiega benissimo!! 🤣

Lettere di ringraziamento alla Prof.ssa Cattani

Quali sono quindi queste strategie che le permettono di instaurare una relazione così positiva con i suoi allievi?

Strategia #1: Mostrare la persona che c’è dietro al ruolo.

In questi anni di lavoro ho avuto la percezione che i ragazzi sentano il peso di dover soddisfare sempre le aspettative della famiglia, degli amici, della comunità in generale, per essere accettati.

Si pongono quindi molto nei nostri confronti come se fossimo dei giudici.

Di conseguenza, tutte le difficoltà scolastiche o emotive che ci possono essere negli anni, vengono vissute da loro come una sofferenza a volte esagerata.

Hanno bisogno che la cosa venga ridimensionata.

Dobbiamo far loro capire che non sono un voto, ma delle persone.

Quello che noi diamo come voto altro non è che la fotografia di un momento del percorso che stanno facendo. Dovrebbero vedere questa fotografia, sopratutto nel caso non sia riuscita bene, nell’ottica di un cammino. Invece fanno fatica, perché sono spesso messi a confronto l’uno con l’altro.

Foto di Yan Krukov su Pexels

E quindi, se io insegnante, nei modi e tempi opportuni, mi spoglio del mio ruolo, e racconto loro che io stessa sono stata una ragazzina insicura e fragile, riesco a creare con loro un rapporto di fiducia.

Riesco a trasmettere il messaggio che mi interesso a loro, che voglio aiutarli veramente, e che so cosa stanno vivendo.

Invece, i ragazzi mi dicono sempre che i genitori non li capiscono. Non hanno bisogno di un adulto che si mostri sempre come infallibile, ma di uno che tenda loro una mano e che dica “guarda, io ci sono passato, so che fa schifo ma ce la puoi fare.”

Ed è quello che faccio, raccontando loro per esempio che ero una frana in matematica e, per sdrammatizzare, che ho infatti scelto un percorso umanistico. Racconto loro anche delle mie “cotte” non corrisposte, dei miei esami all’università andati male, oppure del fatto che anch’io da piccola nascondevo le verifiche perché non volevo dirlo ai genitori.

Racconto loro delle cose che fanno di me una persona. E dico loro: “nonostante nella vita io sia scivolata, perché ho sbagliato, perché non ho capito, perché non ho saputo chiedere aiuto, comunque oggi sono arrivata qui, e voi mi vedete come un punto di riferimento. E quindi sembra paradossale ma, anche se uno sbaglia, se ha un’ottica globale di quello che vuole fare, ce la può fare, basta metterci l’impegno!”.

Strategia #2: Dare spazio alla condivisione

In questi anni, soprattutto dopo il Covid, ho notato che i ragazzi hanno un bisogno immenso di raccontarsi, tanto che ci sono giorni in cui faccio fatica ad iniziare la lezione.

Mi devono raccontare cosa hanno fatto il giorno prima con il nonno, il papà, la mamma, oppure una cosa che li ha colpiti. A volte si tratta di argomenti che non hanno il coraggio di affrontare a casa; per esempio, abbiamo parlato tantissimo della situazione in Ukraina. A volte si tratta delle piccole cose di tutti i giorni: dalle storielle d’amore, alle amicizie, ai litigi, al “mi è successo questo”.

Mi viene da dire che mi raccontano queste cose e mi chiedano il mio parere perché si fidano, perché hanno quella sensazione che io sia in fase di ascolto, e che questo significhi che mi interesso a loro.

Foto di Max Fischer su Pexels

Alle volte, avere come risposta una mia esperienza li fa sentire ascoltati e riconosciuti come persone.

E quindi si ritorna al concetto di prima: sì, siamo in un contesto strutturato, con delle regole, con dei ruoli distinti, però ci sono quei primi minuti di lezione in cui i ragazzi hanno bisogno di condividere la loro vita, come se questo li rendesse più presenti a se stessi e agli altri.

Strategia #3: Essere coerenti

I ragazzi sono molto sensibili al tema della giustizia, e altrettanto suscettibili al tema della pena.

Essere ricattati o messi alle strette a loro non piace.

Trovo poco produttivi stratagemmi come il castigo o il ricatto: “Fai questo altrimenti ti metto la nota”, oppure “fai questo perché altrimenti ti aggiungo compiti in più per casa”.

Di sicuro lavorare nell’altra direzione, ossia costruire con loro un clima che permetta di evitare il ricorso a questi mezzi non è semplice.

Foto di Pixabay su Pexels

Però credo che se io adulto mi dimostro coerente a quelli che definisco i miei ideali, riesco ad ottenere la stima dei miei ragazzi e, quindi, anche la loro collaborazione.

Ad esempio, ogni volta che mi presento alla mia classe, dico che con me c’è la massima libertà di espressione, che si devono sentire accolti e a proprio agio nel dire le cose. L’unica cosa che chiedo loro in cambio è il rispetto, ossia la modalità e la tempistica giuste per esprimere quello che è il loro pensiero.

Cerco sempre di mostrarmi rispettosa di quelle che sono le loro necessità, i loro tempi, i loro pensieri, e facendo così riesco ad evitare quegli stratagemmi che menzionavo prima.

Sicuramente questa collaborazione richiede molta più pazienza e più tempo di quella ottenuta con un clima di terrore: “ti sei mosso, ti metto la nota”. Però penso che i frutti che si ottengono, magari arrivano più tardi, ma durano più a lungo!

Un ultimo consiglio di Chiara a tutti i genitori:

Ricoprire il ruolo dell’educatore è difficile e faticoso: ognuno di noi vorrebbe dare sempre il meglio per i propri figli, ma ognuno di loro ha diverse necessità, che cambiano anche nel tempo.

Sicuramente non si può riflettere sempre l’immagine che si vorrebbe. A volte si sbaglia, si devia dai propri ideali.

Quando questo capita dispiace, però bisogna che ci ricordiamo che siamo persone, oltre ad un ruolo. Siamo esseri umani, imperfetti per definizione, e quindi l’importante è perdonarsi, e ripartire il giorno dopo.

Ed è importante saper chiedere aiuto: penso spesso ad un proverbio africano, che dice che “per crescere un bambino ci vuole un villaggio”.

Foto di Pixabay su Pexels

Per crescere un bambino ci vuole un villaggio

PROVERBIO AFRICANO

Oggi il villaggio famiglia è poco abitato, perché i genitori, e a volte anche i nonni, lavorano. Pensare di caricarsi sulle proprie spalle tutto il peso dell’educazione dei figli è irrealistico e deleterio.

Il villaggio africano viene ripopolato nella scuola e in tutte quelle attività extrascolastiche che i ragazzi svolgono. La collaborazione tra la famiglia e la scuola, la famiglia e l’allenatore, la famiglia e l’insegnante di musica, è veramente fondamentale.

Se i nostri figli sentono che navighiamo tutti nella stessa direzione, partono, abbandonano il molo e vi tornano solo se hanno bisogno.

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