Il compagno si toglie la vita: la storia di Nadia
Mi ci è voluto parecchio tempo per convincermi a contattare Nadia per questa intervista.
Avevo paura di ferirla in qualche modo, tanto è delicato l’argomento trattato.
Per fortuna alla fine ho trovato il coraggio di scriverle, perché il suo racconto riesce a toccare corde molto profonde, e a sollevare temi su cui tutti dovremmo riflettere, come il rispetto del dolore altrui e l’importanza del perdono.
Un po’ di anni fa hai vissuto un evento che ti ha stravolto la vita. Riesci a raccontare cosa è successo?
Il 5 ottobre 2017 ho perso il mio compagno, che si è suicidato.
È stata una giornata partita normalmente, come tutte le altre.
Mi sono svegliata e siamo stati assieme tutta la mattina. Poi io sono andata a lavoro, lui invece non si sentiva molto bene e ha deciso di rimanere a casa.
A metà della giornata di lavoro vedo arrivare mio papà e mia sorella in negozio. Dato che in quel periodo lavoravo abbastanza lontana da casa, ho capito subito che poteva essere successo qualcosa. Di certo non sarebbero venuti fin lì solo per salutarmi, un giovedì pomeriggio qualsiasi.
Vedo che non passano da me, ma vanno direttamente dal direttore del negozio.
Poi mi hanno preso da parte, e mia sorella mi ha detto cosa era successo.
In quel momento non so neanche cosa ho pensato. Mi ricordo solo la disperazione e l’incredulità: era successo e non ci volevo credere.
Non volevo credere che avesse aspettato proprio il momento che io me ne andassi via, dato che era successo all’una del pomeriggio.
Non volevo credere che avesse deciso di farlo in casa nostra.
E poi, faccio ancora fatica a dirlo ad alta voce, che avesse deciso di impiccarsi. Questa parola è difficile da pronunciare per me: penso non farà più parte del mio vocabolario.
Come hai reagito alla tragedia?
Inizialmente con incredulità e probabilmente disperazione.
Quello che posso ricordare, perché ho un ricordo frammentato dei primi attimi in cui me l’hanno detto, è che mi mancava il respiro; forse ho anche urlato, ma non ne sono sicura.
È stata una sensazione strana: camminavo e mi portavano da una parte all’altra, ma non mi sentivo dentro al mio corpo in quel momento.
Avevo nausea, freddo, colpi di caldo, e poi ho reagito col continuare a fare domande, le stesse domande. Volevo sapere dove l’aveva fatto, chi l’aveva trovato… tante cose anche inutili secondo me, perché ormai quel che era fatto era fatto.
Sono stata pervasa dal senso di colpa, per non essermene accorta quella mattina.
Oltretutto penso che qualche minuto prima che lo facesse mi ha anche mandato un messaggio che la sera saremmo andati al cinema… quindi è stato veramente uno schiaffo forte.
Non avevo una spiegazione logica, razionale, e col passare delle ore provavo senso di colpa. Perché non avevo fatto abbastanza, non mi ero resa conto della gravità quella mattina che era rimasto a casa. Non stava bene quel periodo, ma non me lo sarei mai aspettato.
Mi sentivo responsabile, mi sentivo di aver tradito me stessa, di aver tradito lui, soprattutto, per non averlo aiutato.
Poi è salita la rabbia, perché aveva fatto una cosa del genere a me, che l’ho amato così tanto.
Penso sia stata la persona che più ho amato in tutta la vita, e mi ha lasciato con un vuoto enorme nella disperazione più totale, perché in un certo senso vivevo molto solo per il suo bene, solo per lui. Mi sono sentita vuota in quel momento.
La reazione che ho avuto poco dopo è stata quella di scappare: non ce l’ho fatta a stare qui.
Sono andata via due mesi, e non è servito a niente.
Però scappare per me sembrava la soluzione migliore, come se potesse risolvere qualcosa.
Invece quando sono tornata la situazione era quella, e mi sono trovata in una casa vuota, casa nostra, che in quel momento tra l’altro non volevo neanche abbandonare.
Sono rimasta lì, da sola, per mesi, e penso sia stata la cosa più masochista che io abbia fatto finora.
Probabilmente mi ha portato dentro ad un tunnel senza ritorno in quel momento. Mi sentivo che non avevo nessuna speranza di venirne fuori, non trovavo la forza di reagire, ed ero arrabbiata. Le persone mi parlavano, e a me dava fastidio sinceramente.
Come hai affrontato il dramma?
Per molto tempo non l’ho affrontato.
Sono scappata, e poi sono tornata a vivere in quella casa, perché avevo la falsa speranza che tornando lì tutto tornasse normale.
Mi sono chiusa in me stessa; ho fatto mesi senza entrare in camera.
Poi ad un certo punto ho deciso di farmi aiutare da uno specialista, perché per mia fortuna ho due nipotini meravigliosi, che hanno visto in me in quei mesi solo una persona triste, che piangeva.
Mi sono data una scossa perché essere per loro un buon esempio come zia è sempre stata una cosa importante per me. Non potevano pensare che la vita fosse così.
E quindi ho contattato all’inizio uno psicologo, con cui ho fatto qualche seduta ma con cui però non mi sono trovata.
Poi tramite conoscenze sono arrivata a questo psichiatra in pensione che aveva un approccio totalmente diverso, che era quello che mi serviva: non mi compativa, anzi era molto severo.
Mi serviva che mi sbattessero in faccia la verità, senza girarci attorno, senza scavare nel passato.
Nel passato problemi non ne avevo, o probabilmente sì, ma in quel momento non erano importanti.
E quindi abbiamo lavorato molto sul presente, sulle sensazioni, sul fatto che la realtà era quella, che sono cose che accadono purtroppo. Come accadono gli incidenti in macchina, accade che le persone si suicidino. Bisogna accettarlo, non sentirsene in colpa.
Ci ho messo tanto, ho seguito anche una cura farmacologica perché ormai ero caduta in una depressione abbastanza pesante.
Trovare il trattamento giusto è stato difficile: c’erano farmaci che mi intontivano e basta, altri che mi davano la nausea, altri che mi facevano stare peggio di come già stavo.
Finché con svariate prove abbiamo trovato probabilmente la terapia giusta: non aveva effetti collaterali, e mi sentivo normale.
Questi farmaci hanno probabilmente aiutato a tirarmi un po’ su, a ristabilire il livello di ormoni, ad aiutare il mio cervello a riprodurre quello che il trauma aveva bloccato.
Quando sono riuscita a ristabilire quello, mi sono lasciata andare al dolore. Ho cominciato ad accettarlo, ho cominciato a perdonare il mio compagno per quello che aveva fatto, e pian piano a perdonare me stessa.
Adesso provo un profondo senso di rispetto nei suoi confronti, perché avendo toccato il fondo anch’io, so che se lui ha fatto una cosa del genere il dolore che provava era grande.
A questo punto sono quindi riuscita a perdonarlo, almeno in parte. In parte, forse, non riuscirò mai a perdonarlo del tutto.
Ho cominciato anche a sentirmi meno in colpa: anche se me ne fossi accorta quella mattina, l’avrebbe fatto un’altra volta. Perché queste malattie che non si vedono purtroppo ci sono, sono dentro di te, e non hanno ancora trovato una cura.
Di cosa avresti avuto bisogno che non hai trovato nelle persone a te vicine o in te stessa?
Questa tragedia mi ha fatto riscoprire molto la mia famiglia.
Penso tutti nella vita abbiamo quella fase in cui ci sentiamo grandi, ci sentiamo indipendenti. Quando capitano queste cose sono i familiari che sono lì con te, per te: i miei nipoti, mia sorella, mio fratello, i miei genitori.
Sono gli unici che ti possono aiutare, e non lo dico per far polemica. Per gli amici la vita va avanti, e se tu resti fermo, non è che tutti possono aspettarti.
Mi sono sentita in quel momento abbandonata, da moltissime amicizie.
Altre invece ci sono sempre state.
Ho rafforzato dei legami con alcune persone, però si sono spezzati legami con altri.
Avrei probabilmente avuto bisogno di un po’ più di comprensione. Mi sono sentita molto giudicata. Anch’io non mi sono comportata benissimo con certi amici, perché avevo una rabbia dentro che non riuscivo a reprimere, e probabilmente l’ho scaricata addosso a persone che non c’entravano niente.
Ho colpevolizzato persone che non avevano colpa. Avevo bisogno di qualcuno a cui dare la colpa per dividere un po’ di quella che sentivo io, dentro di me. E in questo so che ho sbagliato. Ma quello che mi ha fatto star male in quel momento è non aver avuto la comprensione del periodo che stavo passando: mi è mancato quel “vabbè lasciamo passare quello che hai fatto, noi ci siamo lo stesso”.
Questo in tanti aspetti non c’è stato: sono stata criticata, giudicata, e questo mi ha fatto veramente star male, perché penso che il dolore delle persone non deve essere giudicato.
Non si deve puntare il dito su come le persone reagiscono al dolore. Ogni dolore è personale e bisogna averne rispetto. Non si può sapere come una persona può reagire.
Non ce l’ho con nessuno, ed è anche giusto che le persone vadano avanti con la loro vita, non possono stare fermi con te. Quando succedono questi drammi, vedi il mondo sotto un’altra prospettiva: le persone attorno a te restano quelle di prima, e tu cambi, e non è detto che la strada che percorrevi prima sia quella che percorri dopo. Cambiano le strade.
Provo molto affetto per le persone da cui mi sono un po’ allontanata, però oltre a star male per quello che era successo, sono stata molto male perché mi sono sentita sola.
Quello che mi è mancato in me stessa è stata la forza di reagire, inizialmente. Di lasciare andare.
Per me voltare pagina è un po’ difficile: tendo a rimuginare sulle cose. Non riesco a farmi scorrere addosso le cose, fatico a perdonare, e quindi penso che anche per questi aspetti del mio carattere ci sia voluto più tempo per lasciarmi andare al dolore.
E forse dentro di me non ho lasciato ancora andare del tutto. Tengo dentro di me, e lo proteggo, parte di questo dolore, e lo terrò per sempre.
Però comincio con gli anni, e con l’arrivo della mia bambina, a conservarlo in modo piacevole: è una cosa mia, fa parte di me, non sarei quella che sono adesso, se non fosse successo questo molto probabilmente non sarei mamma.
E quindi se ho dovuto vivere tutto questo per poi arrivare a dove sono adesso, da una parte sono “felice” di averlo vissuto. Non è felicità: è difficile da spiegare, a volte anche per questa cosa mi sento in colpa, perché è dovuta succedere una tragedia perché io possa vivere la gioia più grande che può vivere una persona.
Non so se sia collegata, o se l’avrei vissuta lo stesso, ma penso che la mia bambina sia il regalo per tutto quello che ho sofferto.
Cosa diresti alla Nadia che ha appena scoperto l’accaduto?
L’unica cosa che mi sentirei di dirmi è quella che ho odiato per tantissimo tempo che le persone mi dicessero. Sembra una frase fatta che tutti ti buttano là perché non sanno cosa dire, ma in realtà penso sia l’unica verità: il tempo sistema.
Non ci credevo che sarei sopravvissuta al dolore, però il tempo passa, e tu impari a conviverci.
Impari a conviverci se prima o poi dentro di te scatta quel “devo reagire”.
Mi direi “questo dolore lo porterai per tutta la vita, e arriverà il giorno in cui lo custodirai con estrema gelosia. È una ferita sempre aperta, ma che col tempo smette di sanguinare. Fa parte di te, è lì, imparerai soltanto ad evitare tutte quelle situazioni e persone che potrebbero farla ancora sanguinare.
Conserverai tutto questo con molto rispetto, e anche se in questo momento non ne troverai il senso, lasciati andare. Lasciati andare, non resistere alle situazioni, non fare per forza quella forte, piangi, urla, e anche di fronte agli altri non vergognartene. Non vergognarti di quello che provi.“
Adesso ne parlo, se è una cosa che può essere d’aiuto a qualcuno. Purtroppo viviamo in una società in cui il suicidio è ancora un tabù, non visto come una morte da malattia, come può essere un infarto. Quindi automaticamente sei etichettato.
Mi sono sentita etichettata molto. Certe frasi, certe battute che mi sono state dette, che mi hanno fatto percepire di avere una croce sulla schiena.
Direi alla me di allora di fregarsene totalmente di quello che dicono gli altri. “Tu sai la verità, tu sai che hai provato con tutte le forze ad aiutarlo. L’hai amato dal giorno in cui vi siete visti. È stato il classico amore a prima vista. Quel sentimento era tuo, e quindi nessuno può metterci la bocca. Se la gente ha tempo di parlare di questo e giudicarti, vuol dire che non ha nessuno da amare, o nessuno da piangere.“
Un esempio: poche settimane dopo la tragedia sono uscita una sera, trascinata fuori dai miei amici dato che era l’ultima cosa che volevo fare. Stavo parlando con un ragazzo, quando uno mi dice ” ci credo che si è ucciso” facendomi intendere che secondo lui stavo già flirtando.
“Fatti scivolare addosso quello che dicono.”
Un’altra cosa che mi direi è di non sentirmi in colpa: se detto da me, ci crederei un po’ di più.
Quel senso di colpa che ti porti dopo un suicidio ti divora l’anima. Mi sono sentita per tantissimo tempo senza anima: senza sentimenti, senza una ragione per vivere.
Che messaggio daresti a coloro che si ritrovano ad affrontare una morte così improvvisa?
In un angolo remoto, c’è qualcuno che capisce il loro dolore. Che probabilmente è quello che è mancato a me.
C’erano persone che avevano vissuto lutti grandi, ma nel mio caso nessuno aveva vissuto il suicidio di una persona cara. E quindi non mi sentivo compresa.
Ognuno vive il dolore a modo suo, ma penso che lo strascico che lascia un suicidio unisca: ci sono fasi precise che si passano dopo un suicidio – ho letto tanti libri e contattato associazioni per provare ad aiutarmi.
Direi di vivere liberamente il proprio dolore, senza queste scalette inventate: “eh vabbè è passato un anno, tirati su”, oppure al contrario “è passato un mese e già sei fuori che ridi coi tuoi amici”. Non è una gara, non si deve dimostrare niente a nessuno.
Se dopo due giorni vuoi ridere, ridi dopo due giorni; se vuoi star male per dieci anni, sei libero di star male per dieci anni. Se vuoi viaggiare, se vuoi riprendere la tua vita anche dopo un giorno, sei libero di farlo.
Nessuno può giudicare ciò che tu provi. Puoi avere il vuoto dentro, l’inferno dentro, ma se tu vuoi continuare la tua vita, sono affari tuoi. Nessuno deve permettersi di parlare del tuo dolore.
Qualcuno c’è che ti capisce, ma soprattutto che rispetta le tue emozioni.
Nel caso di lutti in generale, bisogna farsi aiutare. Per quanto io non ci avessi mai creduto, bisogna farsi aiutare con un percorso terapeutico, con un percorso farmacologico se necessario, perché da soli non si va da nessuna parte. Da soli si sopravvive, ma non si ha ritorno.
La psicoterapia ed eventualmente i farmaci sono indispensabili, se non si vuole portarsi avanti questo malessere per tutta la vita.
Grazie mille Nadia per questa tua preziosa testimonianza (posso solo immaginare quanto doloroso debba essere per te rivivere certi momenti, quindi te ne sono doppiamente grata!), e per i messaggi che se ne possono trarre 💚.