Mollano tutto, aprono un’azienda agricola

Conosco Laura dai tempi dell’università. Io frequentavo il corso di Biologia Molecolare e lei quello di Biologia. Ci siamo incrociate un po’ di volte grazie ad amici in comune, e di lei mi hanno subito colpito il sorriso e l’energia contagiosa.
Un paio d’anni fa mi ha incuriosito un suo post su Facebook, in cui mostrava alcune verdure prodotte dal “Giardino di Casa Barbosa“, coltivato assieme a João, suo marito.
Ho deciso di contattarli per chiedere loro come fossero approdati a questa strada, e sinceramente sono troppo contenta di averlo fatto!
Dalle loro parole traspare qualcosa di raro: la capacità di reinventarsi, di affidarsi alla propria visione, di credere ai propri sogni, e di inseguirli nonostante le difficoltà.

Come riassumereste la vostra vita pre-Giardino di Casa Barbosa?

La mia vita e quella di João (Barbosa, da cui il nome del Giardino, ndr) si sono incrociate nel 2014 ad una conferenza scientifica internazionale.
Io studiavo i centopiedi all’ultimo anno di università, lui i millepiedi in dottorato (sorride, ndr).
Poi da lì sono successe varie cose, abbiamo capito che le nostre vite dovevano continuare insieme, non potevamo rimanere lontani, distanti, separati, e quindi nel 2015, dopo 7-8 mesi, ci siamo sposati per darci l’opportunità di viverci e vivere insieme, e João si è trasferito dal Brasile qui in Italia con non poche difficoltà.
Ovviamente l’italiano non lo conosceva, all’inizio parlavamo solo inglese; io ho imparato il portoghese, lui l’italiano.
Poi ha cominciato a cercare lavoro, ma con 10 anni di esperienza universitaria sulle spalle, non è riuscito a trovare niente che fosse all’altezza della sua laurea.
Perché un immigrato in Italia non ha voce, non ha futuro, e lo dico anche con un po’ di rabbia (le si rompe la voce, ndr).
Come è nata l’idea del Giardino di Casa Barbosa?
Visto che con quello che c’era di “pronto” in giro non riuscivamo ad avere la vita che sognavamo, ci siamo detti: “Rimbocchiamoci le maniche, e creiamoci noi il nostro futuro!”

Io avevo un lavoro di ufficio -impiegata amministrativa- che mi permetteva di pagare le bollette, ma non era quello che volevo fare nella vita. Ho cercato varie volte la strada attraverso l’università per la ricerca, però senza successo.
Neanche a João riusciva di vincere un concorso pubblico, che comunque non è facile per una persona che non ha la cittadinanza italiana.
Visto che con quello che c’era di “pronto” in giro non riuscivamo ad avere la vita che sognavamo, ci siamo detti: “Rimbocchiamoci le maniche, e creiamoci noi il nostro futuro!”
Allora abbiamo cominciato questa avventura.
In realtà la nostra passione per le piante è nata con la passione tra noi due: quando João si è trasferito qui in Italia, vivevamo in questo micro appartamento che però aveva un enorme terrazzo.
Io ho sempre amato le piante, ne avevo già tantissime, perché nella mia famiglia -le mie nonne, i miei nonni, il mio papà, la mia mamma- mi hanno trasmesso questo amore per le piante.
La mia passione per le piante, la nostra voglia di sperimentare, il nostro essere biologi e scienziati uniti alla curiosità di una cosa nuova, l’agricoltura, ci hanno portati a cominciare a coltivare in vaso vari ortaggi.
Poi quando ci siamo trasferiti nella casetta dove abitiamo adesso, che abbiamo selezionato per il giardino, abbiamo cominciato ad avere un orto ed interessarci all’agricoltura familiare e biologica, e a quello che è la permacultura nel rispetto della biodiversità (per permacultura si intende la progettazione, la conservazione consapevole ed etica di ecosistemi produttivi che hanno la diversità, la stabilità e la flessibilità degli ecosistemi naturali, ndr).
Inizialmente il progetto è nato come l’idea di creare un piccolo “hotspot” a Padova, con un giardino che fosse lasciato il più possibile al servizio dei vari animali e piante.
Piante introdotte da noi a scopo alimentare, ma anche a scopo di aiuto per i vari animali, piccoli mammiferi, uccelli e insetti. Volevamo creare questa oasi per la fauna urbana che ancora esiste, ma che purtroppo a Padova con tutto il cemento e le poche zone lasciate allo stato brado sta riducendosi sempre più.
Da qui l’idea: ma perché non facciamo sì che questa cosa diventi un progetto più grande?
Cosa vi ha spinti ad intraprendere questo progetto?
Non ci interessava semplicemente produrre ortaggi: volevamo creare un ecosistema, che potesse autoregolarsi dopo un po’ di anni.

Sicuramente il fatto di voler mettere in pratica gli studi di biologia fatti, però anche una grande passione per la natura, per le piante, per il veder crescere le cose.
Avendo studiato come crescono gli ecosistemi stabili, come sistemi chiusi di scambio di energia, materia organica ed elementi, capivamo come doveva essere quell’ambiente che volevamo creare.
Non ci interessava semplicemente produrre ortaggi: volevamo creare un ecosistema, che potesse autoregolarsi dopo un po’ di anni. Ed è ciò che stiamo cominciando a vedere in alcune zone del nostro campo, dopo quasi 3 anni di lavoro: un ecosistema piccolino che si autogestisce.
E questo va molto in contrasto con gli altri campi del Veneto, dove ormai non esiste più biodiversità: dagli ultimi rapporti di qualità del suolo, il Veneto risulta al limite della pre-desertificazione.
Questo ci ha spaventato e ci ha spinto a chiederci: Che cosa stiamo lasciando per il futuro? Che terre lasciamo a chi le lavorerà dopo di noi?
C’era quindi l’idea di recuperare le nostre zone: volevamo dare il nostro contributo per fronteggiare tutti i problemi che ci sono attualmente con il cambiamento climatico, e con la desertificazione che avanza.
Un modo che noi abbiamo trovato per metterci in gioco e mettere a frutto quello che abbiamo studiato era appunto questo: sì produrre alimenti, però farlo in un certo modo che rispetti, recuperi e rigeneri l’ambiente.
Come coltivate la terra?
Normalmente cosa si fa? Si toglie tutta la pianta, si lascia la terra scoperta fino alla necessità di mettere una nuova coltura, mettendo concime se serve.
Ecco, questo noi non lo facciamo. Quando finisce la coltura, ad esempio dei pomodori, tagliamo la pianta alla base lasciando l’apparato radicale all’interno del terreno.

Il mio vicino di ufficio non capisce come si possa coltivare tutte le varietà, che gli elenco sempre, in così poco spazio e produrre così tanto…”userete di sicuro qualcosa di chimico per pompare le piante”..
E invece no!
C’è uno studio ponderato a priori, pazienza, dedizione, costanza e amore,tanto amore e poi rispetto per le piante e per le bestie che abitano in orto e in giardino..per questo veniamo ripagati con raccolti come quello di oggi!
PS. Ci sarebbero stati altri tre cetrioli, ma ce li siamo mangiati prima😅”
Lavoriamo la terra in modo molto diverso rispetto all’agricoltura tradizionale.
Facciamo un esempio: è finito il ciclo produttivo del pomodoro. Normalmente cosa si fa? Si toglie tutta la pianta, si lascia la terra scoperta fino alla necessità di mettere una nuova coltura, mettendo concime se serve.
Ecco, questo noi non lo facciamo. Quando finisce la coltura, ad esempio dei pomodori, tagliamo la pianta alla base lasciando l’apparato radicale all’interno del terreno.
Non andiamo a smuovere tutta la combina e tutta la parte dove le piante sono cresciute, perché la pianta di per sé crescendo con le sue radici ha già mosso la terra, ha già lavorato per noi la terra.
Semplicemente quindi lasciamo la radice al suo posto.
Tagliando alla base la pianta la eliminiamo sì, però manteniamo comunque vivo tutto quello che è il microecosistema che si era creato attorno alla radice. Quindi non andiamo a disturbare tutti quei microrganismi e quella microfauna che c’è all’interno del suolo, che è ciò che lo mantiene vivo e ricco di nutrienti.
Dopo qualche settimana, la radice è stata decomposta dai vari microrganismi presenti nel suolo, diventando essa stessa concime per le future colture.
Come mai questo nome: “Il Giardino di casa Barbosa”?
Ci deve essere spazio anche per la contemplazione, per delle zone che non vengono toccate, che vengono lasciate in disordine.

All’inizio del nostro progetto, l’orto era appunto il giardino di casa nostra.
Però poi quando abbiamo dovuto aprire la partita IVA e dare un nome all’azienda agricola, abbiamo deciso di non cambiare il nome, perché l’idea del giardino si sposava perfettamente con quello che volevamo fare: un campo che fosse un po’ come il giardino di casa nostra, aperto a tutti.
Il giardino è per noi qualcosa che prepari perché sia funzionale, per viverci, per passarci il pomeriggio e i momenti di relax, però dev’essere anche qualcosa di molto bello e vivibile appunto; non dev’essere necessariamente qualcosa di super produttivo.
Ci deve essere spazio anche per la contemplazione, per delle zone che non vengono toccate, che vengono lasciate in disordine.
E poi soprattutto perché doveva essere qualcosa che potevamo vivere noi, ma anche le altre persone e gli altri esseri viventi che vengono ad abitarci, quindi banalmente le piante e gli animali.
Curiosità: all’epoca non conoscevamo ancora il metodo del Market Garden, che è un metodologia francese che adesso sta spopolando, di un giardino “produttivo” nel rispetto del paesaggio, della terra, e della biodiversità. Quindi il nome “giardino” è stato proprio provvidenziale.
Il resto del nome, “di casa Barbosa”, l’abbiamo dato invece per trasmettere l’idea di famiglia, di casa: nel nostro progetto c’è infatti tutto il nostro nucleo familiare.
Quali sono le difficoltà più grandi che avete affrontato (o state affrontando)?
Questa reticenza può abbatterti, soprattutto quando sei all’inizio, e sei insicuro perché non hai ancora ottenuto i primi risultati.
Questo lavoro richiede tanto tempo, pazienza, costanza e perseveranza: avere pressione anche dall’esterno sicuramente non aiuta.

Tralasciamo il clima, che è una cosa che tocca tutti: la siccità costante, gli agenti atmosferici incontrollati e incontrollabili che si abbattono dall’oggi al domani senza nessuna possibilità di correre ai ripari.
Un altro grandissimo ostacolo è stata la reticenza delle persone a cui andavamo ad illustrare il nostro progetto.
Che fossero amici, parenti, conoscenti, o vicini che venivano a curiosare nel nostro campo, se da una parte c’era sempre qualcuno di super curioso e ben disposto ad ascoltare il nostro progetto e le nostre idee innovative rispetto all’agricoltura tradizionale, c’era anche purtroppo una fetta molto molto pesante di persone che, anche gratuitamente, ci scoraggiava dal farlo: “Guarda che non funziona!”, “Ma no, ma cosa fate così! Perdete tutto questo tempo dietro a questa cosa!”, “Non fate altro che ripetere le stesse cose, chissà quando vedrete i risultati”…
Purtroppo questa reticenza può abbatterti, soprattutto quando sei all’inizio, e sei insicuro perché non hai ancora ottenuto i primi risultati.
Questo lavoro richiede tanto tempo, pazienza, costanza e perseveranza: avere pressione anche dall’esterno sicuramente non aiuta.
E poi un altro ostacolo molto importante è la carenza di fondi.
Non abbiamo nessuno che ci possa finanziare in questo progetto, e quindi ci siamo sempre autofinanziati, prima con quello che rimaneva dal mio stipendio da dipendente, e poi dopo la maternità e il mio essermi licenziata per restare a casa con Cecilia a fare la mamma, con tutto ciò che riuscivamo ad ottenere dalle nostre piccole vendite.
Nonostante abbiamo sempre avuto comunque l’appoggio di amici e parenti che ci hanno aiutato con piccoli finanziamenti quando ne avevamo bisogno, non è semplice.
Sebbene la nostra agricoltura non abbia bisogno dell’uso di grandi macchinari, anche le piccole infrastrutture che ci servono -banalmente dei teli antigrandine, tubi per l’irrigazione- sono costosi. E a volte è davvero frustrante realizzare che un investimento che non possiamo permetterci potrebbe moltiplicare il nostro potenziale.
Da un lato quindi siamo molto orgogliosi che stiamo andando avanti passo dopo passo come delle formichine che si mettono via ogni singolo granellino, dall’altro è molto pesante.
Ci sono dei momenti in cui ci scoraggiamo perché dopo una grandinata perdiamo un sacco di piante che non avremmo perso se avessimo avuto i fondi per realizzare una struttura col telo antigrandine sopra a tutte le piante. In quei momenti sorge un po’ di amarezza, un po’ di “Chi cavolo me lo fa fare?”.
Come cercate di superare queste difficoltà?
Un po’ per la nostra filosofia di recuperare per quanto possibile quello che c’è, un po’ per necessità, nel nostro campo diamo veramente una seconda, terza, quarta, centesima vita a qualsiasi pezzo di legno, plastica e metallo.

Stiamo pensando di creare un’unione tra piccoli produttori e piccole realtà per costruire un manifesto da portare al governo.
Dalle realtà come la nostra sta provenendo una qualità di cibo che è molto diversa -e migliore- da quella fornita dal grande mercato.
Facciamo il lavoro di recuperare il suolo e il paesaggio, però non possiamo fare tutto da soli: abbiamo bisogno di sostegno. Altrimenti sembra di lottare contro i mulini a vento.
Un’altra soluzione che mettiamo in campo per sopperire alla mancanza di fondi è la creatività. Infatti, un po’ per la nostra filosofia di recuperare per quanto possibile quello che c’è, un po’ per necessità, nel nostro campo diamo veramente una seconda, terza, quarta, centesima vita a qualsiasi pezzo di legno, plastica e metallo.
Devo dire che in questo abbiamo sviluppato una rete di persone che fortunatamente sa che quando trovano qualcosa che potrebbe esserci utile, ce lo mettono da parte, ce lo forniscono: pali, teli… noi ricicliamo e recuperiamo di tutto!
Infatti se qualcuno che legge vuole darci delle cose, volentieri (ride, ndr)!
Quali sono le vostre soddisfazioni più grandi?
Hai presente l’odore quando piove dentro un bel bosco in montagna? Ecco, è l’odore che abbiamo noi adesso dentro la nostra terra.

Nel nostro orto nel centro di Padova avevamo piantato dei girasoli a scopo puramente ornamentale -li adoro! (Laura, ndr)- e dopo vari studi avevamo deciso di lasciarli anche dopo la sfioritura, nonostante il vicino che ci diceva: “Ma perché non li togliete, che sono troppo brutti così secchi?”.
Una delle soddisfazioni più grandi è stato vedere i cardellini! Non ne avevo mai visto uno a Padova; un giorno ne sono arrivati una decina, a cibarsi dei semi dei girasoli.
E hanno continuato a venire a cibarsi per tutto il tempo che abbiamo lasciati lì i girasoli: hanno capito che il nostro orto era per loro uno spazio dove potersi rifocillare per praticamente una stagione intera.
Ed è stato in quel momento che ho visto che la nostra idea di dare riparo e cibo ad animali dimenticati della fauna urbana stava cominciando a funzionare.
Proprio questa idea ci ha spinto a costruire l’azienda agricola “Il giardino di casa Barbosa”. L’abbiamo aperta a luglio del 2021, recuperando il campo di mia nonna a Tessera, in provincia di Venezia.
Anche ora nel Giardino riusciamo a vedere ogni giorno quanto ospitale è il nostro campo per un sacco di animali, insetti principalmente, che grazie alle modalità con cui noi coltiviamo le nostre verdure trovano riparo, cibo, un habitat che attorno a noi gli è stato brutalmente rubato.
Dopo questi anni vediamo come il modo in cui abbiamo lavorato la terra ha recuperato il terreno, e il modo di preservare l’acqua e di piantare l’acqua, sta facendo tornare l’acqua all’interno del nostro campo.
Una soddisfazione grandissima è infatti la rigenerazione del suolo. Ci siamo resi davvero conto di quanto i 3 anni del nostro lavoro abbiano migliorato la terra solo da poco. Infatti all’inizio di quest’anno abbiamo preso in gestione un nuovo campo, e si vede proprio la differenza del suolo.
Il suolo del campo nuovo si è pian piano compattato a causa del continuo passare di trattori. Invece quando prendi in mano un po’ di terra del nostro campo “vecchio”, senti che è un suolo molto diverso. Sembra un suolo di foresta: è scuro, si vede che c’è materia organica viva dentro. Le radici crescono dappertutto. Il macrobiota si riesce a vedere, il microbiota si sente dall’odore. Hai presente l’odore quando piove dentro un bel bosco in montagna? Ecco, è l’odore che abbiamo noi adesso dentro la nostra terra.
E abbiamo il confronto anche con le zone nei dintorni: con il continuo diserbo e seminativo, la terra viene lavorata e poi lasciata seccare per tutto l’inverno e anche parte della primavera. Quella terra ormai diventa un deserto: si vede già da lontano che ospita pochissima vita lì dentro.
Ogni volta che scoprono dei piccoli accorgimenti per far crescere una rapa più grande, non se li tengono per sé. Crediamo fortemente che la conoscenza va condivisa, e questa condivisione è bellissima.

Questa è la nostra più grande soddisfazione: è dal 2019-2020 che abbiamo cominciato a lavorare la terra così, e adesso se si mette la mano all’interno della terra, si sente che è soffice, malleabile, viva. Tutto quello che abbiamo studiato e messo in pratica funziona, e funziona bene!
Quando abbiamo cominciato questo progetto, tutti dicevano che era una perdita di tempo, che questo non è fare agricoltura, ma solo un passatempo.
Noi invece ci credevamo, e piano piano abbiamo conosciuto altri gruppi in Italia che fanno la stessa cosa che facciamo noi.
Questo modo di lavorare la terra infatti non l’abbiamo creato noi: è una filosofia di agricoltura che man mano prende forza. Ci sono tantissimi gruppi in Italia che lavorano così, e per noi è confortante, perché sappiamo di non essere da soli.
Una cosa molto molto bella, che ci dà un sacco di soddisfazione, è questa comunità in cui siamo riusciti ad entrare. È fatta di tante altre piccole aziende agricole che lavorano nel nostro stesso modo, e che non hanno paura di condividere ciò che hanno scoperto e il modo in cui fanno le cose.
Ogni volta che scoprono dei piccoli accorgimenti per far crescere una rapa più grande, non se li tengono per sé. Crediamo fortemente che la conoscenza va condivisa, e questa condivisione è bellissima.
Se il lavoro dei campi fosse un insegnante, cosa insegnerebbe?
Se non hai la capacità di adattarti a come cambia il vento, ti spezzi e non vai più avanti. Invece se hai la capacità di adattarti, di essere malleabile, di piegarti al vento ma spostarti un po’ più in là, allora ottieni dei risultati.

Senza ombra di dubbio insegnerebbe la pazienza, e la capacità di fidarsi di quello che si è fatto.
Perché tu semini oggi, ma raccogli tra 30, 60, 90, 180 giorni, e devi avere la pazienza di aspettare che le cose crescano, che le cose vadano per il loro corso.
E anche la pazienza perché tante volte gli agenti atmosferici ti remano contro. Questo cambiamento climatico importante a volte ti dà delle batoste, e quindi devi ricominciare da capo, e rimboccarti le maniche perché un lavoro che avevi fatto benissimo va rifatto.
E tante volte insegna ad avere un po’ più di fiducia in se stessi. Ci sono sere in cui João torna a casa sconsolato perché i risultati non si vedono subito, ma dopo molto tempo, e quindi dice “Io ho fatto questo trattamento come andava fatto, ma non vedo il frutto… Chissà se ho fatto giusto!”.
Perché poi alla fine non dipende solo da te: dipende anche tanto dalla pianta, dai semi, da quello che ti hanno fornito, da quello che ha fatto prima di te il vivaista se compri delle piante in vivaio, e da tante piccole cose tutte sommate insieme.
Oltre alla pazienza e alla fiducia in se stessi, anche tanta capacità di adattamento. Perché se non hai la capacità di adattarti a come cambia il vento, ti spezzi e non vai più avanti. Invece se hai la capacità di adattarti, di essere malleabile, di piegarti al vento ma spostarti un po’ più in là, allora ottieni dei risultati.
Qual è la vostra stella polare che vi dà luce nei momenti più bui?
È bellissimo, ed è sicuramente questo il nostro motore, il nostro punto di riferimento, vederla crescere con questo brillio negli occhi ogni volta che vede una pianta, un insetto, un fiore, tutte queste piccole cose che se vivessimo a Padova facendo solo dei lavori d’ufficio lei non potrebbe vivere.

Inizialmente la nostra stella polare era la voglia di cambiare qualcosa, di metterci in gioco e creare qualcosa di nuovo, che fosse allineato con quelli che erano i nostri studi e i nostri ideali di un mondo migliore.
Dopodiché ci sono stati tantissimi alti e bassi, tanti bassi, però per fortuna è nata Cecilia, che adesso ha quasi due anni, e devo dire che è lei il motore che ci fa andare avanti.
L’abbiamo portata con noi tantissime volte nel campo fin da quando era piccolissima – pioggia, vento, neve, caldo – ovviamente con le giuste precauzioni.
Abbiamo fatto sì che il campo avesse sempre una zona apposta per lei, perché potesse stare accanto a noi in sicurezza mentre lavoravamo, per vivere questa avventura tutti insieme.
E adesso che lei inizia ad interagire con il mondo, adesso che parla -tanto (Laura ride, ndr)- e inizia a capire le cose e ad esternare i propri pensieri, quando ci sente parlare del campo, di cosa ci piacerebbe fare dice “Cecilia campo. Anche io!”.
Ed è una cosa bellissima vederla così entusiasta di questo luogo, e vederla fare le cose che facciamo noi.
Quando l’abbiamo finalmente riportata nel campo, dopo tre settimane in cui tra festività e altro non siamo riusciti, lei con il suo mini annaffiatoio ha seguito Joao che annaffiava tutte le piante nuove appena trapiantate; osservava i fiori e le piante, e le accarezzava.
Tutte le difficoltà vengono spazzate via e gli sforzi ripagati nel momento in cui la vediamo felice di andare sul campo a vedere i girasoli che crescono, e mangiare con piacere le nostre verdure dicendo “È campo!”.

Poi c’è stato un momento tenerissimo. Abbiamo delle insalate coperte da un tunnel di tessuto non tessuto, che João ha alzato per poterle vedere. Lei gli è andata vicino e ha detto “Papà, alza!”, perché voleva vederle anche lei.
È bellissimo, ed è sicuramente questo il nostro motore, il nostro punto di riferimento, vederla crescere con questo brillio negli occhi ogni volta che vede una pianta, un insetto, un fiore, tutte queste piccole cose che se vivessimo a Padova facendo solo dei lavori d’ufficio lei non potrebbe vivere.
Sia io che João abbiamo avuto nella nostra infanzia questo contatto con la natura, e siamo felicissimi e orgogliosi di poterlo regalare a nostra figlia.
Tante volte ci guardiamo quando lei ha queste accortezze nei confronti della natura: ci riempie di orgoglio e di felicità. Questo è il futuro migliore che volevamo dare a nostra figlia.
Tutte le difficoltà vengono spazzate via e gli sforzi ripagati nel momento in cui la vediamo felice di andare sul campo a vedere i girasoli che crescono, e mangiare con piacere le nostre verdure dicendo “È campo!”.
Cosa fareste se poteste tornare indietro?
Inizieremmo questo progetto prima! Perché abbiamo aspettato tutto questo tempo perché non avevamo il coraggio di buttarci, eravamo indecisi.

Inizieremmo questo progetto prima! Perché abbiamo aspettato tutto questo tempo perché non avevamo il coraggio di buttarci, eravamo indecisi. Tutte le paure, tutto i “lo faccio, non lo faccio”… se avessimo cominciato prima, saremmo più avanti ora nella nostra esperienza.
Col senno di poi uno pensa “cavolo, per le mie insicurezze per le mie indecisioni ho perso un sacco di tempo”. Forse era tempo che ci serviva per maturare la convinzione che questa idea andava portata avanti, alla fine.
Però sì, se potessimo tornare indietro, inizieremmo prima col progetto dell’azienda agricola a conduzione familiare.
💚
Che dire? Grazie Laura e João (e Cecilia!) per questo vostro progetto carico di amore, e per l’esempio di coraggio, determinazione e resilienza che date, ogni giorno. Vi auguro il meglio, e sono sicura che andrete molto lontano!
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Bravi ragazzi, la vostra storia e il progetto di un agricoltura sana mi ha commossa, avete coraggio, resilienza, sensibilità e competenze. Cecilia vi seguirà sempre, sarà la vostra forza e orgoglio e crescerà felice in un ambiente che tanti di noi hanno dimenticato. Avanti così.
Fiorella, certi messaggi non possono che scaldare il cuore! Un abbraccio