Reinventa la propria vita in Giappone: la storia di Laura
Mi ricordo molto bene la chiacchierata con Laura in riva al fiume Brenta, più di dieci anni fa.
Era una calda giornata d’estate, e parlando del più e del meno ad un certo punto le è spuntato un timido sorriso, e mi ha confidato “Non so, c’è questo ragazzo giapponese che mi piace molto… Vediamo un po’ cosa succede”.
Ed è successo che dopo non molto Laura ha lasciato il suo lavoro come insegnante di inglese, la sua famiglia ed amici, e tutto quello che aveva costruito in Italia, ed è partita per il Giappone.
È stato bellissimo intravedere il suo percorso di “ricostruzione”, che l’ha portata ad insegnare, in un Paese con lingua, cultura e tradizioni quanto più lontani dai nostri, un’arte che fino a poco tempo prima le era estranea: la cucina.
Ero troppo curiosa di sapere di più sulla sua storia, e sono davvero contenta di averla contattata: il suo racconto mi ha emozionato, e ha sollevato temi universali come la solitudine, la voglia di essere accettati, i limiti che ci autoimponiamo, l’importanza della comunità.
Quali difficoltà hai incontrato in questa cultura così diversa dalla nostra?
Una delle difficoltà più grandi è stata il farsi accettare in un nuovo ambiente.
Questo desiderio di farmi accettare l’ho sempre avuto, però il cambiamento radicale di vita lo ha accentuato.
Mi sono trovata di fronte a questo dilemma: quanto modificarmi per entrare a far parte di questo nuovo mondo? E quanto esigere di proteggere la mia identità?
Soprattutto la mia spontaneità, che forse è la sfaccettatura del mio essere che più ho sacrificato in Giappone.
Un’altra difficoltà è stata la perdita di riferimenti esterni, come gli amici. Ho da sempre cercato di creare una rete di amicizie molto bella, che per me è importantissima: adoro infatti la condivisione.
In Giappone mi sono trovata distante. Pensavo solo fisicamente, invece anche il temporalmente ha pesato molto.
Non solo non potevo condividere le esperienze insieme ai miei amici, ma era difficile anche solo parlare con loro, perché ci sono sempre queste 7-8 ore di differenza, per cui gli orari del lavoro e della giornata in generale non coincidono.
Questa è una cosa che avevo sottovalutato.
Avevo cominciato a scrivere delle email, raccontando quello che succedeva, ma poco alla volta questo nuovo mondo entrava in me, lo vivevo tutti i giorni, ed era sempre meno spiegabile, perché troppo differente.
Ero talmente presa dall’immergermi, dal sopravvivere, dal cercare di trovare il mio posto, che non avevo neanche più energia, e non riuscivo a raccoglierla o ritrovarla. Non ero neanche più in grado di cercare il contatto con i miei amici.
Mi aspettavo, essendo così socievole, di fare subito nuove conoscenze. Invece nella scuola di lingua che ho frequentato il primo anno, non si sono create con i miei compagni di corso quelle affinità spontanee che mi aspettavo.
E da tutto questo è derivata una grande solitudine. Questo è forse il più grosso nodo che ho dovuto affrontare: l’isolamento, anche emotivo.
C’è stato un grosso smarrimento, anche proprio fisico. Perché la geografia di Tokyo è totalmente diversa da quella delle metropoli occidentali: non c’è una piazza, una chiesa. Non ci sono neanche i nomi delle vie. Mi trovavo veramente smarrita tra questi edifici collegati con le stazioni.
Mi sono perciò ritrovata ad avere paura: paura di uscire di casa, di uscire dal guscio. Mi sentivo perduta.
E allo stesso tempo anche le scritte mi confondevano: erano quasi tutte ideogrammi. Non capivo se un edificio conteneva un ristorante o un negozio, e se un negozio, di cosa. Anche perché gli edifici stessi mi traevano in inganno: nei grattacieli pensavo ci fossero uffici, invece poi ho capito che di solito al piano terra ci sono negozi, poi abitazioni, poi uffici. E magari sottoterra ci sono gli alimentari.
A proposito di alimentari: anche il cibo è stato destabilizzante. Erano tutti alimenti mai assaggiati, e non riuscendo a tradurre le scritte, non potevo immaginare che gusto potessero avere.
Era tutto sconvolgente: ho vissuto un rivoltamento totale dentro e fuori, come un calzino (ride, ndr).
Il vero problema è stato che non avevo previsto queste difficoltà in modo realistico. Mi ero detta “Sì, sarà dura, ma vado lì col mio compagno, Haruo, studio la lingua, un po’ alla volta mi ambienterò, e poi penserò a cosa fare”.
L’idea era di restare lì un paio d’anni, per poi tornare con un bagaglio di esperienza in più.
In realtà poi ci sono stata per 10 anni, e le cose sono andate diversamente dai miei progetti.
Che cosa ti ha aiutato a superare queste difficoltà?
Tanto, tantissimo, mi hanno aiutato la mia curiosità, e la tenacia nel voler imparare bene la lingua per poter comunicare ed avere accesso alla cultura.
Una grande spinta mi è stata data dalla voglia di scoprire questo nuovo mondo, con tutte queste nuove sfaccettature: la cerimonia del thé, la calligrafia che ho poi cominciato a praticare, i posti, con queste montagne che ho cominciato ad esplorare facendo camminate (se sei curioso di scoprire di più sull’affascinante Giappone, Laura condivide le sue scoperte su questo meraviglioso blog, ndr).
E sicuramente è stata fondamentale la mia voglia di farcela.
Poi sicuramente ho avuto un grosso supporto da parte di mio marito, non solo per la parte burocratica, ma anche per il sostegno morale, una volta finita la scuola: “Guarda che ce la puoi fare, se vuoi fare lezioni di cucina. Puoi fare qualsiasi cosa: ti appoggio. Non ti preoccupare.”
Un’altra cosa che mi ha aiutato molto è stato il ritorno allo sport. Ho sempre amato tanto l’attività fisica, sia di squadra, come la pallavolo e il beach volley, che individuale, come l’aikido.
Mi ero un po’ adattata in Giappone al ritmo di mio marito e ai giapponesi che sono un po’ meno sportivi. Questa è una cosa che mi ha fatto molto male, e me ne sono resa conto dopo.
Il rimettermi in moto con lo yoga ha ricominciato a mettere in moto anche sensazioni positive, pensieri positivi.
Questo un po’ alla volta mi ha portato ad avere la forza di cercare una terapeuta, con cui lavoro da due anni. Ho avuto la fortuna di trovare una persona molto preparata e competente, con cui mi trovo bene. E sicuramente il lavoro che sto facendo con lei mi ha portato a ritrovare un equilibrio.
È molto importante la persistenza in questo: se fai yoga o vai dal terapeuta una sola volta non risolvi tanto. Bisogna continuare a lavorare su se stessi.
È essenziale per me fare esperienze che ti facciano sentire sicuro, e a volte spingere un po’ per uscire dalla tua zona di comfort. È giusto alternare queste due cose.
Non dobbiamo dimenticarci, quando cerchiamo di migliorarci e siamo quindi scomodi, di rafforzare la sicurezza e la gioia di fare le cose che ci piacciono: è tanto, tanto importante.
E così un po’ alla volta ho ricominciato a ricostruire la mia vita là in Giappone.
Ho cominciato ad organizzare delle lezioni di cucina italiana: un piccolo gruppo di donne giapponesi (massimo cinque) venivano a casa mia, si cucinava, e poi si mangiava assieme.
Era un’occasione di scambio molto ricca per me, e anche per loro: era un dare e ricevere, un raccontarsi com’è lì, com’è qui.
Com’è nata l’idea di dare lezioni di cucina?
L’idea è nata un po’ così: avevo voglia e bisogno di mangiare italiano, che lì non trovavo.
All’inizio ho provato ad andare nelle pizzerie e ristoranti italiani a Tokyo, ma ovviamente non era mai il gusto di casa.
Il problema era recuperare gli ingredienti: ad esempio, il riso per il risotto è introvabile in Giappone, o le zucchine, i pomodori secchi, l’olio d’oliva buono.
Mi è sempre piaciuto cucinare, facevo esperimenti a casa e invitavo gli amici a cena, però vivendo da sola non avevo tante occasioni per cucinare bene.
È quindi in Giappone che mi sono fatta un po’ le ossa.
È stata sorprendente questa evoluzione verso la cucina, verso le lezioni di cucina addirittura, che io stessa non credevo avrei mai potuto fare.
Anche agli occhi di quanti mi conoscono questo risvolto è apparso stupefacente: un giorno dei miei amici sono andati in un ristorante di un mio ex, e al loro racconto che facevo lezioni di cucina, lui ha reagito con: “Laura? Lezioni di cucina?? Non ci posso credere!” (ride, ndr).
Ho cominciato a riprodurre i gusti di casa prima per me e mio marito, poi per gli amici giapponesi. Li invitavamo a casa e si complimentavano sempre “Ma che buono! Ma perché non ci insegni?”.
Ho quindi deciso di provare. Ho trovato questo sito per stranieri a Tokyo che facevano lezioni di cucina, e ho iniziato. Dal 2016 fino a prima di partire, nel 2022, ho avuto più di 600 clienti, facevo lezione ogni settimana, e ho creato una decina di menù. Menù completi: antipasto, primo, secondo, contorno, dolce.
È stata una grandissima soddisfazione: tanti clienti continuavano a ritornare, e poi era interessante perché pur essendo una città gigante arrivavano clienti che mi dicevano, stupendomi: “Ho sentito parlare tantissimo di te!”.
Visto che era difficile trovare gli ingredienti, ogni volta per le lezioni di cucina giravo tantissimo! Andavo in 4-5 posti diversi. La farina per fare il pane era rara, le erbe aromatiche pure. A volte trovavo il rosmarino da una parte, e la salvia da un’altra (ride, ndr).
Poi un po’ alla volta ho capito dove andare, e consigliavo alle clienti dove recuperare il necessario per riprodurre i piatti.
Una delle cose più importanti che mi sono successe è stata la scoperta della panificazione.
Non trovavo il pane con la crosta dura: lì ci sono un sacco di panetterie, ma fanno pani morbidi, pani dolci, pane con il bacon o formaggio, non il pane semplice che abbiamo noi in Italia.
Mi sono portata il lievito madre che mi ha passato un mio amico delle mie zone in Italia, a Cittadella, e me lo sono portata a Tokyo durante un viaggio attraverso Parigi.
Mi ricordo ancora la mia preoccupazione: non avevo idea su come mantenerlo vivo. Un po’ alla volta ho imparato a fare i rinfreschi, a mantenerlo, e mi è durato finché sono rimasta lì, almeno 8 anni.
Ho cominciato ad utilizzarlo per fare il pane, cosa che è stata un’avventura: ci sono un sacco di variabili, è più complicato che il lievito secco.
Ma alla fine sono riuscita a fare un pane buono, che è divenuto popolare sia tra i miei amici che tra le clienti. E sono riuscita ad organizzare questa lezione di cucina solo sul pane, in cui spiegavo loro sia come mantenere il lievito madre sia come fare il pane, a modo mio.
Poi davo loro anche un po’ di lievito madre: ho disseminato questo lievito madre di Cittadella in tutta Tokyo (ride, ndr). Per loro era una grandissima novità, perché è un Paese, come tutti i Paesi asiatici, in cui la base è il riso. Apprezzavano tantissimo questo pane diverso, più europeo.
Poter portare loro questa novità è stata per me una enorme soddisfazione.
Cos’hai imparato dal costruirti questa nuova vita da zero?
La cosa meravigliosa durante tutto questo processo dell’imparare a cucinare, e poi metterlo a disposizione degli altri, è stato scoprire che potevo insegnare anche a cucinare, e che ho questa capacità di condividere quello che so.
Penso che questo desiderio di condivisione sia una forte propensione, quasi un destino che ho.
Già mi aveva spinto ad insegnare anche in Italia.
Però ho scoperto che questa gioia non era solo nell’insegnare inglese a scuola, ma che è proprio potermi aprire e trasmettere tutto quello che so, e che sono.
Non mi sarei mai resa conto di questa mia qualità in Italia, rimanendo solo a scuola.
Partendo dalle lasagne, ho potuto trasmettere poi la mia allegria, la voglia di stare insieme.
Portare questa atmosfera gioviale, che forse è un po’ più italiana, lì in Giappone è stato molto bello: vedevo che le mie allieve erano proprio contente.
Quindi ora ho scoperto che applicandomi, provando e riprovando posso imparare cose nuove, e ho la capacità di fare cose diverse, che non mi sarei aspettata.
Fare lezioni di cucina, ad esempio, era una cosa che mai avrei pensato di poter fare. È nata un po’ alla volta.
Mi si è aperto un po’ un orizzonte, mi sono resa conto che ero io stessa a limitarmi mentalmente, che mi dicevo “Sì Laura, tu sai fare questo, insegnare inglese. Magari puoi insegnare italiano.”
Cosa potremmo portare noi Italiani in Giappone, e i Giapponesi in Italia?
Se vogliamo fare un confronto semplicistico ma anche profondo: la spontaneità manca in Giappone, ed è una cosa che noi potremmo portare.
Perché è tutto regolato, tutto funziona benissimo. Le persone seguono le regole e però ne rimangono intrappolate: non riescono ad avere la capacità di essere elastici in base alla situazione e al contesto.
Noi usiamo spesso questo modo di dire: “Usa il buon senso”. In Giappone non esiste.
Si segue la regola data, per rispetto delle regole, degli altri, del lavoro; c’è un grande rispetto.
Ad esempio, poco prima di rientrare in Italia ero in bicicletta. Lì ci sono dei marciapiedi molto larghi, su cui vanno sia pedoni che bici. C’erano un sacco di ortensie fiorite su queste aiuole, e mi sono fermata un po’ sulla destra a fare una foto. Nel frattempo veniva dal lato opposto verso di me una signora, sempre in bicicletta. Avrebbe potuto passare dal mio lato sinistro, dove c’erano due metri. Invece tra me e l’ortensia c’erano forse forse 60 centimetri. Lei ha voluto passare in modo forzato sulla destra perché lì normalmente si passa sulla destra. Questa cosa mi ha fatto sorridere perché mi dicevo: “Ma guarda questa signora dove si imbuca, quando c’è tutto quello spazio di là!”.
E questa è la cosa che noi potremmo portarci dalla cultura del Giappone: il sentimento e il rispetto per quello che abbiamo intorno, per gli altri, per il lavoro e la dignità degli altri. Una cosa che un po’ mi dispiace che manchi.
A questo si ricollega una cordialità nei confronti degli altri, ma anche dell’ambiente, dello spazio, dei luoghi in cui ci si trova.
Un esempio banale: non ci sono cestini per strada ma è tutto pulitissimo, perché è normale e rispettoso portarsi la spazzatura a casa. Non si lascia sporca la strada che è bene comune.
Da quando sono rientrata in Italia, sono stata travolta da un’altra qualità degli italiani: ho ritrovato questa rete di amici e persone che ci sono, sono presenti, e sento che mi vogliono un sacco di bene.
Di questo “abbraccio” mi ero un po’ dimenticata: ne ho dovuto fare a meno per tutti questi anni.
È una cosa meravigliosa la rete sociale che riusciamo a costruire. È una qualità speciale degli italiani secondo me, che non è scontata: non fa parte di tutte le culture del mondo.
E questo ritrovato senso di appartenenza mi ha fatto rendere ancora più conto che è molto importante essere collegati agli altri.
Non siamo delle isole: le nostre scelte, le nostre sfide, i nostri problemi assumono tutto un altro valore se ci sentiamo parte di una comunità.
Come vivi il cambiamento? Cosa rappresenta per te la possibilità di cambiare?
Adesso con il ritorno in Italia ricomincia una nuova avventura.
Certamente finché ero lì avevo delle insicurezze, ce le ho ancora: quelle probabilmente rimangono sempre, almeno un po’.
Però mi sento più sicura di me stessa, perché so che qualcosa farò.
Per me la possibilità di cambiare rappresenta una cosa meravigliosa.
Il fatto di potersi ricostruire da zero, il fatto di avere questa libertà, questa tela bianca su cui si può cominciare a ridisegnare la propria vita, è una cosa preziosa e meravigliosa.
Temo di sottovalutare un’altra volta le difficoltà, mi rendo conto che ho questa tendenza.
Mi proietto nel futuro e non considero l’aspetto doloroso e faticoso che implicano le scelte, la tristezza di dover lasciare. Scegliere significa che devi lasciare qualcosa per aprirti a cose nuove.
Si cambia; si cambia sempre nella vita. Ma allo stesso tempo ci portiamo tutto il bagaglio che abbiamo costruito fino a quel momento, quindi è un cambiamento relativo: non è mai una totale separazione dal nostro passato.
È un processo continuo: facciamo una scelta in un certo momento, ma ci siamo arrivati tramite una serie di esperienze, una lenta evoluzione. E ci portiamo dietro tutto quello che abbiamo vissuto fino a quel momento: ci portiamo noi.
Adesso proverò a rientrare nella scuola qui in Italia, con l’insegnamento dell’inglese e dello spagnolo, con cui ripartirei un po’ dalle mie origini.
Però coltivo questo progetto di fare delle lezioni di cucina giapponese qui in Italia.
Voglio mantenere questo collegamento col Giappone che ho costruito con le persone lì, e spero di ricominciare il lavoro come guida per gli italiani in Giappone.
E sono aperta a nuove collaborazioni. Chissà (sorride, ndr)! Credo ci sia una forte curiosità per il Giappone qui in Italia: sono curiosa di vedere che cosa nascerà.
Grazie infinite Laura per aver condiviso la tua esperienza ♥️.
Non vedo l’ora di assorbire la tua allegria in una lezione di cucina giapponese 😉